07/01/10

a partire dall'intercultura

La mobilità umana nello spazio non è certo un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità. Il rapido aumento in questi anni del fenomeno dell’immigrazione, dopo che per oltre un secolo è avvenuto il contrario, ha prodotto anche nel nostro Paese una nuova geografia umana.
Negli ultimi cinque anni il numero degli immigrati in Italia è di fatto raddoppiato. Gli immigrati sono il 7,2% della popolazione italiana, una percentuale che aumenta fino al 10% se si considera la fascia più giovane (gli under 39), dato che viene confermato dall’età media degli stranieri in Italia che è di 31 anni, mentre quella degli italiani è di 43.
Aumentano gli stranieri e aumentano infatti anche i figli degli immigrati.
Quattro bambini su dieci tra gli alunni stranieri sono nati in Italia e si considerano italiani, malgrado molto spesso non possono essere nostri concittadini. Il 70% dei bambini stranieri negli asili italiani è nato nel nostro Paese.
Nell’anno scolastico 2008/2009 (ultimo dossier Caritas sull’immigrazione), i “nuovi italiani” nelle scuole sono saliti a 628.937, il 7% degli alunni. Degli studenti “nuovi italiani”, 1 ogni 6 è romeno, 1 ogni 7 albanese e 1 ogni 8 marocchino.
Anche la geografia umana del mondo della scuola ha conosciuto dunque una rapida trasformazione.
Le Regioni con le maggiori concentrazioni di istituzioni scolastiche che superano il 20% di alunni stranieri sono Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Se la Lombardia presenta il più alto dato assoluto riguardo agli iscritti stranieri, la supera invece l’Emilia-Romagna se si osserva un altro indicatore quello cioè della % di alunni di origine straniera rispetto a quelli nazionali, dato che nella nostra Regione raggiunge l’8,6%, pari al doppio della media nazionale.
Oggi troviamo quindi nelle nostre classi l’Italia del futuro, quella che sarà nei prossimi decenni.
A maggior ragione, la scuola, che è luogo decisivo dove si formano i cittadini, è chiamata a svolgere una funzione essenziale nei processi di integrazione, nel delineare uno spazio dove l’educazione possa intervenire per progettare una società multiculturale, nell’ aprire l’intero sistema a tutte le differenze e nel contrastare il nascere dei pregiudizi.
Un compito scolastico ed educativo, di radicamento nel reale, che accompagni il cambiamento in corso, che prepari alla società del futuro.
In questa prospettiva, un’esperienza preziosa e importante è quella dell’intercultura.
Ho voluto ascoltare a questo proposito la voce e l’esperienza sul campo di un’amica Tania Di Leo*, insegnante, formatrice e referente dell'Associazione Giro Giro Mondo, che da tempo riflette sul tema dell’intercultura e da molti anni opera in questo ambito all’interno delle scuole del nostro territorio. Riporto di seguito alcuni passaggi della nostra conversazione.



“Un’ottica interculturale” quali azioni può modificare nella scuola per facilitare l’integrazione e la formazione dei ‘nuovi cittadini’ ?
In un clima politico e culturale in cui la diversità viene percepita sempre più come un pericolo e una minaccia, ritengo che si ci sia ancora molta strada da fare per tentare di riappropriarsi dei valori dell’accoglienza e della solidarietà. Credo che sia necessario agire alle radici del fare educativo per creare le basi di una società più giusta in cui si possa affermare per i cittadini non italiani il diritto di avere diritti.
All’interno di un progetto sperimentale di educazione interculturale che abbiamo proposto in via sperimentale a partire dal 2005 presso le scuole del Comune di Santarcangelo, il cui obiettivo dichiarato era l’integrazione degli alunni stranieri nelle classi, abbiamo interpretato il termine “interculturale” non tanto in senso informativo, cioè concentrando l’attenzione sugli aspetti esteriori, quanto in senso strutturale. In questo modo “intercultura” è divenuta la capacità di vedere e leggere non soltanto attraverso il proprio personale punto di vista, ma anche attraverso lo sguardo dell’altro da me.
Con il nostro progetto abbiamo scelto di proporre ai bambini e ai ragazzi italiani e non (e indirettamente ai loro insegnanti e alle loro famiglie) argomenti e attività capaci di suscitare interesse e coinvolgimento, con l’obiettivo di esercitarsi a leggere e interpretare la realtà attraverso l’interazione dinamica e costruttiva di una rete di sguardi.
Quello che ci ha sorpreso maggiormente nel corso degli anni è stato constatare come la presenza degli alunni di nazionalità non italiana, che inizialmente ha costituito il pretesto per proporre il progetto stesso, abbia in seguito rappresentato una risorsa per riflettere sulla nostra identità di cittadini italiani e sul nostro modo di vedere e interpretare il mondo che ci circonda.
A questo proposito mi ha colpito la riflessione di Ismail Ademi dell’associazione G2 che, parlando in un recente convegno sui figli degli immigrati nella scuola italiana, ha affermato che “gli immigrati non portano nulla di nuovo nei dibattiti, ma mettono in evidenza che molto spesso ‘gli italiani’ la pensano in maniera diversa tra di loro sui diversi temi (per esempio la libertà religiosa…)”. Ismail Ademi è un ragazzo che ci vede come una “società chiusa” per il quale “la legge sulla cittadinanza è una questione di buon senso che dovrebbe prescindere dal problema dell’immigrazione”. Forse dovremmo realmente interrogarci su cosa significa per noi essere italiani, piuttosto che pensare a cosa devono fare gli altri per diventarlo.


Un’azione educativa che parta dall’interno dell’individuo appare più che mai necessaria oggi, in una società in cui la cornice socioculturale dominante sembra irrigidirsi in difesa della cittadinanza degli inclusi, dei gruppi socialmente e culturalmente più forti, con la conseguenza di generare sempre più spesso atteggiamenti di diffidenza e paura nei confronti dell’altro da me, se non di aperta ostilità e disprezzo. Per questa via la scuola potrebbe divenire per eccellenza il luogo della cittadinanza.
Poiché l’educazione ha un ruolo preponderante nella creazione della società democratica, credo che oggi la scuola debba rivendicare un nuovo ruolo di spazio educativo, una sorta di “palestra” in cui vengano esercitati i diritti e i doveri dei giovani “cittadini”, siano essi italiani o stranieri, un luogo dove si impara a vivere insieme. Se è vero che la diversità è da intendersi come una ricchezza, è vero anche che dalla diversità nascono i fraintendimenti, le incomprensioni e i conflitti. E il conflitto rappresenta un’ottima possibilità per crescere e per comprendere fin dove arrivano i miei diritti/doveri e dove iniziano i diritti/doveri dell’altro.
Cogliere le preziose situazioni che la convivenza a scuola inevitabilmente offre e provare a leggerle in questa nuova ottica interculturale rappresenta una straordinaria opportunità per bambini e ragazzi che imparano a relazionarsi con le difficoltà del vivere insieme, ma – se opportunamente guidati – imparano anche a trovare soluzioni che tengano conto dei diversi punti di vista e a pensare in maniera più flessibile e più giusta.


Attualmente è in discussione alla Camera un progetto di legge bipartisan( On. Sarubbi-PD/On.Granata-PDL) che mira a riscrivere alcune norme sulla cittadinanza, riducendo i tempi burocratici per la concessione della cittadinanza (ad oggi requisito principale per richiedere la cittadinanza è la residenza continuativa per 10 anni, che diventano 18 anni per coloro che sono nati in Italia ma possono fare richiesta della cittadinanza solo alla maggiore età) e valorizzando l’aspetto partecipativo del processo di integrazione. L’aspetto importante è che tenta di sanare il problema dei giovani, ovvero dei figli di immigrati che arrivano nel nostro Paese in tenera età e che, a distanza di molti anni, continuano a vivere e a percepirsi come stranieri e come ospiti. La cosiddetta “seconda generazione”, i nati nel nostro Paese o giunti in Italia al seguito dei loro genitori, che hanno frequentato le nostre scuole e si sentono italiani.
E’ su di loro che nasce la vera società multietnica italiana. Sono i bambini senza cittadinanza ma italiani, quelli che hanno le stesse aspirazioni dei nostri figli ma non le stesse possibilità. Quelli più a rischio. E quelli per cui ne va del futuro del nostro Paese, non solo del loro futuro individuale. Quale la realtà dal tuo osservatorio?

Riguardo alle cosiddette “seconde generazioni” credo che troppo spesso si generalizzi nelle definizioni senza comprendere realmente che esiste una tipologia vastissima di situazioni. Basti pensare che ci sono adolescenti nati in Italia, altri nati altrove e socializzati nel nostro Paese; ci sono adolescenti di recente o di non recente immigrazione, così come ci sono ragazzi arrivati qui con la propria famiglia e altri non accompagnati. Infine ci sono i ragazzi stranieri adottati da famiglie italiane… Per ognuno di essi “stare a scuola” e “stare” nella nostra società ha un significato e un valore diverso. In termini scolastici è provato che i ragazzi nati nel nostro Paese che hanno un percorso scolastico uguale a quello degli italiani hanno esiti scolastici statisticamente inferiori a quelli dei loro coetanei italiani.
Un’attenzione particolare andrebbe dedicata, a mio avviso, agli adolescenti stranieri. Credo sia estremamente riduttivo parlare del loro disagio come di un disagio scolastico. Credo piuttosto che si debba partire dal disagio scolastico per sperimentare e consolidare risposte di sistema che producano degli effetti sull’intero contesto in cui il ragazzo vive.
Sarebbe opportuno organizzare dei contesti scolastici ed extrascolastici che abbiano una funzione educativa e che trovino uno spazio istituzionale. Penso ad esempio a dei luoghi in cui questi ragazzi, insieme ai loro coetanei italiani, possano trovare spazi di studio pomeridiano e magari trovare personale disposto ad ascoltarli e a fornirgli informazioni utili per conoscere il territorio o altro. Al tempo stesso diventerebbero degli spazi affettivi in cui essi possono imparare ad esprimersi e a partecipare.
A questo bisognerebbe aggiungere una riflessione di tipo sociologico sul tema dell’adolescenza qui e altrove e magari accorgersi che i nostri figli adolescenti, italiani, sono più simili per gusti e interessi agli adolescenti stranieri di “seconda generazione” di quanto siano simili a noi. E a questo si aggiunga anche il fatto che in termini di consumi (musicali, di moda, di cibo o altro) gli adolescenti stranieri sono uguali ai loro coetanei italiani, ma non lo sono in termini di coesione sociale.
Personalmente ritengo che la realtà sia complessa e pertanto vada affrontata nella sua complessità e che non sia possibile accontentarsi di proposte normative che non tengano conto di una tale complessità.


(Intervista a Tania Di Leo di Alessandra Pesaresi)

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